Cultura

Copertina di Medioevo Digitale di Allegra Fanti
Cultura Sab, 11/12/2022 - 13:53

GROW INTERVISTA ANDROGYNUS PER IL SUO NUOVO CONCEPT ALBUM USCITO IL 28 OTTOBRE 2022

Medioevo Digitale non è solo un album da ascoltare tutto in un fiato, ma è soprattutto il canto intimo e sensibile di una crescita spirituale raccontata in sette tracce.

“E andiamo a vedere cosa ha fatto l’asfalto alla città”. Così ha inizio la prima traccia di Medioevo Digitale, il nuovo concept album di Androgynus: band grossetana nata da un progetto congiunto di Gabriele Bernabò e Allegra Fanti. Il disco co-prodotto con Davide Sorresina e missato da Stefano Bechini sarà portato dal vivo da Stefano Giuggioli (batteria), Andrea Voira (tastiere e cori), Stefano Terribile (basso elettrico) e lo stesso Gabriele Bernabò (voce, chitarra e synth).

Partiamo dal nome del gruppo, Androgynus, a cosa fa riferimento?

Dimentica il concetto di ermafrodito. Ricordi il mito dell’androgino di Platone? L’essere umano in principio era più completo perché composto da entrambi le parti: il maschile e il femminile. Non riguarda l’orientamento sessuale o le caratteristiche fisiche, ma una sorta di equilibrio energetico fra le parti. Una duplicità che crea interezza, forza. Questa duplicità è richiamata anche nel medium: io (Gabriele) mi dedico alla parte di composizione testuale e musicale, Allegra cura le grafiche e i visuals. Realizziamo così un’unione androgina in cui la musica supporta l’arte visiva e l’arte visiva supporta la musica.

Noto una duplicità anche nel nome dell’album, Medioevo Digitale, più vicina però all’ossimoro. Da dove nasce questo titolo?

Nasce da un’osservazione del mondo circostante. A diciannove anni mi sono trasferito a Roma e mi sono trovato catapultato in una città caotica, frenetica e inquinata. Da questo iniziale spaesamento nasce il primo testo, Asfalto, che descrive la rabbia di un ragazzo, quasi un bambino, di fronte a un’iper-urbanizzazione che ha sepolto per sempre la Natura. Dal primo all’ultimo testo seguiamo il vissuto del narratore che si sente un microrganismo inascoltato in un macrocosmo delirante e che soffre la scissione sociale fra l’avanzamento tecnologico e il deterioramento della vita interiore. Il narratore parte da un senso di insoluto per muoversi nel mondo alla ricerca di un equilibrio.

Riesce a trovarlo poi questo equilibrio?

Nelle ultime tracce c’è una presa di consapevolezza da parte del narratore, uno spostamento di baricentro: lo sguardo si sposta dall’esterno all’interno. Nell’ultimo testo, Mattino, l’io lirico si rende conto che non dovrebbe giudicare, che forse la strada giusta da percorrere non è nella condanna dell’altro. Non si arrende, ma suggerisce di provare ad accettare lo stato delle cose, di lasciare andare il giudizio senza però disarmarsi nella lotta per il cambiamento. Possiamo parlare di un umile ottimismo fiducioso in un risveglio collettivo, ma anche di un monito ad accogliere il reale e attingere alle proprie risorse interne.

Ci sono degli echi a qualche artista, qualcuno a cui ti senti particolarmente debitore?

La musica mi accompagna da sempre nel quotidiano e inevitabilmente sono influenzato da ciò che ascolto. I nomi imprescindibili del mio retaggio sono i Beatles, Battiato, Battisti, i Verdena, i Tame Impala, Niccolò Contessa e, in questo caso, Andrea Laszlo De Simone. Sono debitore al suo secondo album Uomo Donna per la struttura che Laszlo riesce a dare a questa opera così completa e singolare. Forse il primo concept album di successo in Italia dagli anni Settanta, è un lavoro raffinato e portatore di un vero e proprio messaggio poetico.

Abbiamo detto che nel vostro progetto sono inscindibili musica e visivo, l’una serve a spiegare l’altro e viceversa.

Sì, Allegra si occupa della parte visiva. È sua la copertina dell’album che illustra il paradosso di una realtà virtuale: una piantagione infinita di schermi televisivi, su una distesa di cemento, mostrano una natura rigogliosa e colorata. Ma la Natura è solo mostrata, non reale, non tangibile. L’immagine arriva immediata e ci fa sentire la contraddizione di questo Medioevo Digitale, di una collettività che preferisce vivere e interagire attraverso uno schermo, attraverso un’illusione di vita.

Intervista di Marta Carfì

Cultura Gio, 02/17/2022 - 12:44

Quali memorie per dopodomani? Franco Fortini torna all’Università

Il giorno 18 febbraio alle ore 17 l’associazione culturale GROW presenterà al pubblico, con gli interventi di Federico Masci e Riccardo Innocenti, il documentario “Franco Fortini - Memorie per dopodomani” del regista Lorenzo Pallini, presso l’aula A4 della Fondazione polo universitario grossetano. Questo primo incontro, destinato all’approfondimento di una personalità significativa e complessa come quella di Fortini, sancisce l’inizio della collaborazione fra l’associazione GROW e il Polo grossetano, finalizzata alla promozione della cultura e delle arti fra i giovani. Poeta, intellettuale, critico letterario, docente, saggista, traduttore, Franco Fortini (Firenze, 1917 - Milano, 1994), costituisce sicuramente una delle figure di spicco del panorama culturale italiano del Novecento, e del Novecento, secolo di cambiamenti, trasformazioni e conflitti, porta anche le tracce. Il documentario di Lorenzo Pallini, regista e documentarista romano, con all'attivo numerose collaborazioni esterne, soprattutto nella comunicazione aziendale e nell’organizzazione di rassegne e festival, permette di confrontarsi nuovamente, da altre prospettive, con una parte del percorso personale di Fortini e con una parte della storia novecentesca in un momento, come questo, in cui il suo nome e la sua eredità intellettuale non sembrano visibili al di fuori degli ambiti di studio. Nato in collaborazione con il centro Studi Franco Fortini di Siena dell’ Università di Siena (DFCLAM), l’Associazione culturale Marmorata 169” e l’ Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico (AAMOD), e portato a termine grazie al sostegno di 225 produttrici e produttori dal basso attraverso una campagna di crowfunding, il progetto non vuole definirsi solo come risultato di una intenzione personale e non vuole essere il riflesso di un’unica volontà. Nelle sue intenzioni e nelle sue manifestazioni infatti il documentario, che ha origine anche dalle iniziative sorte nel 2014 in occasione del ventennale della morte dellautore, tende a presentarsi come un progetto collettivo dove lo sguardo del regista, il profilo dell’autore, le traiettorie personali e collettive che ha percorso, e il contributo prezioso di amici (Cecilia Mangini), compagni di strada (Pier Vincenzo Mengaldo), docenti e allievi (Luca Lenzini, Davide Dalmas, Emanuele Zinato), contribuiscono alla realizzazione di una rappresentazione omogenea e corale. Oltre al confronto di questo vario materiale, poi, il film è attraversato dalle letture di alcune poesie fortiniane, in modo da trasformare l’insieme delle testimonianze in un confronto di voci. Dopo una breve introduzione con le parole del regista e dei collaboratori seguirà alla proiezione un dibattito in sala.

 Federico Masci 

Federico Masci si è laureato in Culture Moderne Comparate presso l’Università di Torino con una tesi sul Materiale e l’immaginario di Remo Ceserani, e attualmente insegna materie letterarie. Collabora con «L’Indice dei libri del mese», «La Balena Bianca», «Avamposto», «L’Ospite Ingrato». Organizza incontri con poeti e critici contemporanei a Torino e a Grosseto con le associazioni culturali “Sul Ponte DiVersi. I poeti d’oggi.” E “Grow”. Tra gli ospiti avuti, negli anni, Guido Mazzoni, Fabio Pusterla, Milo De Angelis, Matteo Marchesini, e altri.

Cultura Sab, 01/01/2022 - 22:37

Intervista a Ludovico Colombo - CON.TATTO

Nato a Treviglio in provincia di Bergamo, Ludovico Colombo è un artista e studente di Arti Visive al corso magistrale dell’Università IUAV di Venezia. Il suo lavoro parte da una ricerca spirituale e intellettualistica, ispirata dai suoi viaggi in India, Africa e Medio Oriente, dall’assidua lettura di testi poetici e dall’interesse per la letteratura mistica orientale.

Attraverso le sue fotografie, sculture e installazioni, Ludovico esplora le tematiche del rapporto tra sguardo e territorio, del paesaggio interiore e del superamento metafisico delle nostre barriere sensoriali. Purtroppo l’artista non sarà presente al festival CON.TATTO perché risultato positivo al Covid-19, fortunatamente in una forma non grave, che però lo ha costretto nella sua stanza durante le feste natalizie.

Sei un artista molto eclettico. Quali sono i mezzi espressivi che preferisci? 

Amo sperimentare e variare, ma preferisco il disegno e la scultura reinterpretati come performance. Mi interessa l’ambiguità dell’atto performativo, che trasforma il corpo in opera d’arte, in una statua che mantiene però la capacità di muoversi. Quando inizio una performance, il mio obiettivo è far capire quanto è sottile il movimento di una persona che rimane ferma.

Cosa presenti al festival CON.TATTO?

Espongo un progetto sviluppato durante il primo lockdown, “Icaro don’t call me bae”. Ho ripreso il titolo da un brano del rapper Tedua: è una delle poche volte in cui mi ispiro alla cultura pop, di solito sono la poetica e i libri dei mistici orientali a influenzarmi. L’opera è composta da tre fotografie del cielo, in origine analogiche e scattate con un rullino scaduto dalla finestra della mia camera, poi proiettate in digitale su tre schermi. 

L’immagine nasce già corrotta, impressa sulla cellulosa degradata e chimicamente decaduta. L’acquisizione in digitale delle fotografie rappresenta un passaggio di stato ulteriore, che trasporta le immagini da una dimensione fisica a una nuova dimensione immateriale. Infine, la presentazione su schermo impedisce al cielo di rimaterializzarsi nella stampa cartacea.    


Articolo di Michelangelo Gennaro

Cultura Sab, 01/01/2022 - 22:33

Intervista a Luana D'Alfonso - CON.TATTO

Col fumetto posso fare di tutto, perché non è un'arte minore. E perché se l'arte è comunicazione, cosa c'è di più comunicativo del fumetto? (Hugo Pratt)

Luana nasce a Chieti l’11 aprile 1995. Dopo aver conseguito il diploma presso l’istituto d’arte Nicola da Guardiagrele, a Chieti, prosegue il percorso di studi presso l’Accademia di Belle Arti di Urbino, ottenendo un diploma di I livello in pittura. Nel 2021 si è diplomata in Illustrazione presso la Scuola Internazionale di Comics di Pescara.

A ottobre del 2021 riceve la nostra open call tramite un messaggio su Instagram e subito decide di partecipare. Dedicata, questo il titolo della vignetta digitale da lei selezionata per la mostra CON.TATTO, tratta il tema dell’assenza di una persona cara. Qui il contatto è percepito nella sua assenza, come una mancanza, nella forma di ricordo o di desiderio.

Ora che ti sei diplomata, quali sono i tuoi progetti?

Mentre frequentavo l’Accademia di Pittura sentivo che qualcosa non stava funzionando. È stata un’esperienza molto significativa perché mi ha chiarito le idee su quello che non volevo fare. Ora, dopo il diploma alla Scuola Internazionale di Comics e dopo un workshop di fumettistica, sono sempre più convinta di volermi aprire un varco nel mondo dell’illustrazione e del fumetto. È difficile riuscire ad avere un riconoscimento immediato e retribuito del proprio lavoro, ma ci sto provando: partecipo ai concorsi e alle mostre e nel frattempo mi costruisco un portfolio. Per il momento sono stata retribuita solo per due illustrazioni, entrambe dedicate a due dischi musicali.

Ci sono alcuni autori che ti ispirano più di altri?

Sono molti i nomi che citerei volentieri, ma così su due piedi direi Marco Cazzato per le illustrazioni, Gianluigi Toccafondo per le animazioni e Gipi per il fumetto.

Come definiresti il tuo processo creativo?

In genere, nella fase di progettazione lavoro soprattutto per associazione di idee e per suggestioni. Senza pormi troppi limiti. Successivamente cerco di adeguarmi allo scopo finale del progetto.

Cosa ti interessa raccontare?

Al momento sono affascinata dal raccontare le persone, le loro interazioni ed emozioni. Sento il bisogno di raccontare delle storie ed esplorare la sfera emotiva umana.

Nel mondo dell’illustrazione stanno avendo sempre più peso i social: usati come una vetrina e forma di autopromozione. Come definiresti il tuo rapporto con essi?

Ammetto di essere poco pratica, ma ho iniziato ad usare di più Instagram durante la pandemia. Sto sperimentando in questo senso, cerco di pubblicare con frequenza e organizzo qualche diretta. Non mi viene spontaneo, ma riconosco l’importanza dl mezzo e cerco di adeguarmi.  

Articolo di Marta Carfì

Cultura Sab, 01/01/2022 - 22:30

Intervista a Francesca Bianchi - CON.TATTO

Francesca Bianchi è nata e cresciuta in maremma, che è anche la cornice dei suoi scatti in analogico.

Le sue fotografie saranno esposte al Cassero di Grosseto, nella mostra CON.TATTO organizzata dall’associazione GROW dal 28 al 30 Dicembre.

Perchè hai portato foto esclusivamente notturne?

Più che una scelta si è trattata di un'esigenza, chi lavora di giorno spesso può uscire solo di buio e bisogna fare di necessità virtù, questo mi ha messa in condizione di sperimentare fonti di luce anche estemporanee tipo i fari della macchina o la torcia del telefono. Quello che mi interessa è non dipendere dai vari mezzi come studi o postproduzioni che si rischia di diventare bravi tecnici e avere poco da dire.

Nelle tue foto i soggetti sono perlopiù nudi, è una scelta ben precisa.

E pure questa è un'esigenza, il vestiario contestualizza, ci rende spazio e tempo, passare in rassegna gli armadi diventa un ostacolo e credo che il corpo sia l'uniforme più democratica che esista. Quando scatto vedo persone liberate dal costume, che si riappropriano della nudità con cui sono nate.

Anche i luoghi che ti fanno da sfondo sembrano fuori dal tempo.

Sì, ogni foto è scattata all'aperto, in maremma, il mio posto preferito per i set fotografici perchè è rimasto come sospeso, selvatico, anche quando gli ambienti utilizzati sono prati, campi o orti vicino casa mia, quelli della mia infanzia. Questi luoghi mi danno energia e così riesco a fidarmi, sono posti familiari ma sempre da scoprire.

Articolo di Leonardo Marzocchi

 

Cultura Sab, 01/01/2022 - 22:25

Intervista a Leonardo Viti - CON.TATTO

Leonardo Viti, 30 anni, è uno scultore e digital artist nato a Firenze ma cresciuto a Grosseto. Da oltre 10 anni lavora nel campo degli effetti speciali e 3D animation per il piccolo e grande schermo. Risiede a Londra, dove ha lavorato nell’industria dell’intrattenimento per colossi come Disney, Marvel, Lucas Films, Netflix, ecc.

Oggi si dedica a tempo pieno alla sua produzione di criptoarte, una forma artistica moderna nella quale rappresenta ormai un nome affermato.

Cosa ti ha fatto avvicinare al mondo dell’arte? E perché hai deciso di farne un lavoro?

Direi che l’arte è sempre stata parte della mia vita sin da piccolo: sono nato a Firenze e entrambi i miei genitori sono architetti, così mi hanno trasmesso la passione per il disegno. Si può dire che già da bambino fosse una mia grande passione. Ho studiato presso il liceo artistico di Grosseto, dove ho imparato a padroneggiare le varie tecniche di rappresentazione artistica, soprattutto scultura e pittura. Credo di aver sempre saputo che l’arte sarebbe diventata parte importante del mio lavoro, anche se all’epoca non avrei mai potuto immaginare di lavorare per il cinema o per le serie tv come digital artist nell’ambito della 3D animation, riuscendo così a legare la passione per l’arte con il mio interesse per il mondo virtuale. Una volta diplomato mi sono trasferito a Roma dove ho avuto la mia prima esperienza lavorativa per un film indipendente. In seguito ho frequentato uno dei primi corsi di animazione tridimensionale a Roma, ma la mia formazione è stata sostanzialmente da autodidatta: ore e ore chiuso in casa a imparare software e tecniche digitali. Poi è arrivata l’opportunità di lavorare a Londra, inizialmente doveva durare un paio di settimane, poi sono rimasto per oltre 7 anni.

Alla mostra CON-TATTO presenterai un NFT, cos’è?

Un NFT è sostanzialmente un contratto che avviene in un posto virtuale chiamato blockchain, dove tutte le transazioni sono tracciate. Un NFT, acronimo di Non Fungible Token, può avere la forma di un’immagine, di un video oppure di un file audio ad esempio, ma ciò che li accomuna è il fatto che l’acquirente ha una garanzia di possesso del prodotto artistico esattamente come per un quadro o una scultura tangibile. Per un artista rappresenta una nuova opportunità di affermare la propria arte, perché ha dato la possibilità di dare un valore, e quindi vendere, a ciò che prima era considerato economicamente non quantificabile poiché non tangibile. Questo e la libertà di esprimermi mi hanno spinto a dedicarmi a tempo pieno alla mia produzione di NFT. Quando lavoravo per altri studi mi sentivo come un ingranaggio, un componente di una catena di produzione, poiché bisognava seguire delle direttive che inevitabilmente percepisci come limitanti. Questa nuova frontiera rappresentata dagli NFT mi ha fatto sentire davvero un artista.

In cosa consiste l’opera che proporrai in questa mostra?

Innanzitutto è il primo NFT che ho realizzato e l’ho scelto perché penso che sia adatto al tema e alle tecniche espositive. Inoltre per me ha un grande valore simbolico, poiché è nato durante la quarantena, in un periodo dove non riuscivo a dormire per le varie preoccupazioni legate a quel periodo, e rappresenta quello che era il mio stato d’animo in quel momento. Credo che in molti si siano sentiti come me. L’opera vuole anche criticare la dipendenza dai social media, che con la pandemia sono diventati ancora più ingombranti nelle vite di tutti. Nello specifico si tratta di un video di una scultura che ho realizzato tramite un visore per la realtà virtuale, che ho poi animato con l’ausilio di vari software, al quale ho aggiunto un sonoro ideato da me stesso. In sostanza quello che ne risulta è un video loop della scultura animata.

 

Antonio Vozzi

Cultura Sab, 01/01/2022 - 22:16

Intervista a Isabel Rodriguez Ramos - CON.TATTO

Non è mai stato così facile intervistare qualcuno. Isabel mi accoglie con un grande sorriso e un fiume di parole che solo gli impegni hanno avuto il potere di interrompere: avrei continuato a parlare con lei per ore, per giorni. Fotografa e artista visuale italo-cubana di 24 anni, la sua formazione post-diploma passa dalla Facoltà di Filosofia, a una tappa in Olanda fino ad arrivare a un diploma di tecnico di produzione video conseguito tre mesi fa. Noi di Grow l’abbiamo scoperta nel corso della sua residenza artistica DUNE nel Parco Regionale della Maremma e ce ne siamo subito innamorati.

Per la mostra CON.TATTO Isabel ci propone il primo atto del suo progetto SPAZI SOMATICI, un viaggio interiore verso l’esterno visto alla luce dell’ecologia profonda e delle arti visive ed atto a creare nuove consapevolezze in merito alle possibili interazioni e contaminazioni tra umano e natura.

Mi racconteresti la gestazione di SPAZI SOMATICI?

Il video nasce in forma embrionale per la residenza DUNE, organizzata dall’Accademia Mutamenti in collaborazione con il Collettivo Clan. È un video a cui sono molto affezionata, per la prima volta mi sono posta come soggetto di fronte alla macchina. Di solito io sono l’occhio e la mano dei miei progetti, ma in questo caso ho deciso di mettere in atto la parte performativa e di utilizzare il mio corpo. Alla base del progetto ci sono tre domande: Come può il corpo diventare paesaggio? Come posso portare il paesaggio nel corpo? Come può essere un corpo, paesaggio?

Sai ero completamente sola durante la realizzazione del video, sola con la mia macchina fotografica e lo specchio circolare. Tutti i supporti sono stati assemblati con elementi trovati in natura, come legni o rifiuti. È stato un processo lunghissimo, ho speso molto tempo a studiare il paesaggio, i suoni e soprattutto le diverse angolature.

Nel video, oltre al tuo corpo e al paesaggio, ci sono due grandi protagonisti: lo specchio e i suoni

Sì, ho scelto di usare lo specchio perché è un oggetto con cui avevo già lavorato e che funge da portale, un ponte tra il corpo e il paesaggio, come una finestra sul mondo.

Il paesaggio sonoro è invece frutto della felice collaborazione con Rossana Della Pace, cantautrice interessata alla musica popolare mediterranea. L’audio che puoi sentire in Spazi Somatici è il risultato dell’incontro tra la potenza vocale di Rossana e i suoni campionati sul luogo. Penso che Rossana abbia fatto un lavoro incredibile, il paesaggio sonoro è fatto da note che si ripetono, compongono un ciclo. Come vedi, torna l’idea di circolarità anche nello specchio: tutto fa capo alla cultura animista e a quell’idea di osmosi fra realtà interiore ed esteriore. La natura è in noi e noi siamo la natura. Inoltre la circolarità richiama anche la componente femminile della ciclicità.

Nonostante la naturalezza che sta dietro al tuo corpo nudo nel video, immagino che non sia stato così facile esporsi, mi sbaglio?

Sono abituata a lavorare con la nudità, è il pubblico che spesso non è abituato a pensare un corpo come solo corpo. Materia che non chiede di essere sessualizzata. La mia non è neanche una ricerca sul corpo femminile, ma sul corpo panico. Non sessuale, ma vivo, essenziale, parte del creato. Mi spoglio della mia identità e, nel mio lavoro, chiedo agli altri di fare lo stesso.  

Sei fondatrice e direttrice artistica di “Natural Mente Corpo”, di cosa si tratta?

È un progetto artistico che ho ideato di ritorno dall’Olanda, mentre stavo scontando i 14 giorni di quarantena obbligatoria a marzo del 2020. Nasce dalla volontà di creare uno spazio sicuro e non giudicante per giovani che vogliono confrontarsi con una fase creativa ed artistica. In collaborazione con l’attrice Marta Maltese abbiamo organizzato 4 giornate in Val di Susa aperte a chiunque volesse operare una ricerca artistica collettiva sull’ambiente naturale. Da quello che era partito come un esperimento, prende vita un progetto importante, anche dal punto di vista sociale. Seleziono con cura i candidati, preferisco lavorare con persone non avvezze alla ricerca artistica. Chiedo alla persona selezionata di liberarsi dei suoi oggetti, vestiti, della sua identità. Credo che sia proprio questo che li spinge a candidarsi, l’occasione di spogliarsi, di uscire dalla comfort zone, di perdere i connotati che ci stringono e costringono nel quotidiano. Mi sento come un contadino per loro, preparo il terreno fertile e tramite la cura lascio che il seme germogli. Mi dedico molto al soggetto, a volte stiamo soli in mezzo alla natura per settimane. La fase creativa è quella fondamentale, è una ricerca che si autoalimenta. Non post-produco nulla, voglio che il soggetto fotografato si veda senza filtri. I feedback di coloro che hanno partecipato sono entusiasti, mi donano grandissima soddisfazione. Li aiuto a tornare alla primordialità dell’essere nel mondo.

Primordialità e natura, due costanti. Come si sono instillate nella tua pratica?

Sai non mi chiamo Isabel a caso, il mio nome è ispirato a Isabel Allende: la mia infanzia è stata segnata dalle parentesi cubane e da ‘La città delle bestie’.  Ho vissuto questa duplice esperienza di crescere a Torino e visitare la mia famiglia paterna che lavora il tabacco in una zona rurale e isolata di Cuba. Passavo le giornate con i cuginetti a piedi scalzi, coltivando il rapporto con la mia parte naturale. In parallelo, nei romanzi dell’Allende ho trovato invece un’aura di magia, mi sono avventurata in queste storie di rituali, di culture tradizionali e rurali. Ma questa è stata solo la prima formazione, crescendo ho approfondito il rapporto con una ricerca culturale, filosofica, estetica e spirituale. Sto cercando di tenere insieme le diverse esperienze, tra natura, cultura, arte e teatro. Ma sono consapevole che esercitare la primordialità con la scusante dell’arte sia una paraculata, un compromesso. In questo compromesso trova ampio spazio la meraviglia: quando qualcosa ci meraviglia per la sua bellezza (e non parlo di bellezza estetica) entriamo in connessione con qualcosa di autentico, profondo, primordiale che risiede dentro di noi. La grande sfida è dunque destare meraviglia in noi e negli altri e lasciare che la si sperimenti.

 

Articolo di Marta Carfì

 

Cultura Sab, 01/01/2022 - 22:06

Intervista a Allegra Fanti - CON.TATTO

Il gigante dai cento occhi e la metafisica dell'arte

Artista, studentessa e co-fondatrice dell’associazione culturale GROW, Allegra Fanti crede nella spontaneità e nella naturalezza del processo creativo, aspetti chiave per esprimere il senso metafisico dell’arte.

Dopo la laurea in Fine Art all'Università di Northampton, Allegra si è iscritta alla magistrale in Computer Animation and Visual Effects della Rome University of Fine Art (RUFA), dove studia regia, sceneggiatura, character design e software di animazione.

Cosa intendi quando parli di metafisica dell’arte?

Mi riferisco all’esigenza di mettermi a nudo attraverso i miei lavori: quello che faccio non è mai qualcosa di puramente estetico, ma esprime una sorta di processo alchemico, una pratica di sincerità in cui capisco quale parte di me ha valore e quale invece è fittizia, una costruzione egotico-sociale o una maschera.

Negli anni ho sentito sempre più crescere questo senso di metafisica dell’arte, il desiderio di un’arte che può creare disagio, far provare pudore ma anche ammaliare, perché il nudo è ammaliante. A volte ricercare la nostra purezza può spaventare, perché vogliamo essere padroni della vita e la spontaneità sfugge al nostro controllo. 

Nelle tue animazioni, quadri e installazioni dai grande importanza ai simboli.

Certo, soprattutto alla loro valenza archetipale. Infatti non faccio riferimento a un codice simbolico definito o associato a una particolare tradizione, ma ricorro a simboli universali, trasversali rispetto alle differenti culture e religioni.

Ad esempio, in quasi ogni cultura il sole rimanda alla divinità e alla vita, a prescindere da come lo si rappresenti. Lo stesso vale per il contrasto cromatico tra chiaro e scuro, che richiama l’opposizione tra giorno e notte, maschile e femminile, bene e male.

Cosa presenterai al Festival CON.TATTO?

Presenterò una videoinstallazione ispirata al mito di Argos delle Metamorfosi di Ovidio.

Nel mito, Giove si innamora della ninfa Io e innalza una nuvola per non farsi vedere da Giunone mentre la tradisce, ma la dea sospettosa dirada le nubi. Giove decide allora di trasformare Io in giovenca, in una splendida vacca bianca, per camuffarne la vera identità. Avendo intuito l’inganno, Giunone chiede la giovenca in dono e Giove è costretto ad accettare.

Io viene legata a un ulivo e messa sotto la sorveglianza di Argos Panoptes (Argo che vede tutto), il gigante ricoperto da cento occhi che si riposa chiudendone solo due alla volta. Impietosito, il Re degli dei invia suo figlio Mercurio a liberarla: il dio, camuffato da pastore, riesce ad addormentare Argo e fargli chiudere tutti gli occhi con il suono della sua lira, per poi decapitarlo con la spada. Io viene liberata e torna ninfa.

Dispiaciuta per la sorte del suo fedele guardiano, Giunone prende gli occhi dalla testa di Argos e li pone sulle piume del pavone, suo animale sacro.

Leggere Jung mi ha insegnato a immedesimarmi nei personaggi mitologici, rivedere in loro le mie frazioni coinvolte in un dramma interiore. In Argos ho visto l’incarnazione del mio atteggiamento critico e ansioso, pronto a giudicare ciò che faccio io e che fanno gli altri, a farmi sentire in colpa con i suoi cento occhi vigili. 

La giovenca, l’Io bianco e purissimo, è invece ciò che è veramente importante. La musica e l’arte, rappresentate dalla lira di Ermes, sono l’unica via per assopire il giudizio, liberare l’Io e affiancarlo alla guida regale del pavone. Purtroppo anche dietro l’eleganza si nasconde la vanità, e il nuovo rischio diventa la superbia.

Articolo di Michelangelo Gennaro

Cultura Sab, 01/01/2022 - 22:02

Intervista a Laurel Hauge - CON.TATTO

Laurel Hauge (Phoenix, Arizona 1994) è un’artista e scrittrice che vive e lavora a Milano. È stata inclusa in mostre collettive al Center for Book and Paper Arts di Chicago, alla Elizabeth Foundation for the Arts di New York e ha recentemente esposto nella seconda edizione di ReA! Art Fair a Milano. Nel 2020 si è tenuta la sua mostra personale a North Pole Exhibitions, Chicago. È co-fondatrice della casa editrice Have a Nice Day Press e i suoi scritti sono stati recentemente inclusi nelle pubblicazioni Color Tag Magazine, The Lab Review e SoapOpera Fanzine. 

Laurel espone I think about / all the things I could reach / before you, un’opera video che esplora la tematica delle relazioni a distanza utilizzando materiali collezionati su Google Earth.


RI: Nella descrizione dell’opera che presenterai al festival CON.TATTO hai scritto di essere stata influenzata dall’isolamento che hai sofferto quando vivevi a New York. In questa occasione l’arte ti ha fornito un mezzo per incanalare e trasformare lo stress e l’ansia?

 

LH: Penso di aver affrontato quelle emozioni negative attraverso la scrittura, componendo testi che si potrebbero definire poesie “sulla vita”.

Sviluppo spesso nuove idee scrivendo, prima di arrivare al risultato finale. Anche il progetto I think about / all the things I could reach / before you è nato in forma scritta, diventando poi una bandiera e più tardi ancora un video per North Pole Exhibitions.

 

RI: Sei a tuo agio con molti medium artistici, dalla poesia alla performance passando dalla video arte. Quali scrittori e artisti ti hanno influenzata?

 

LH: Per quanto riguarda scrittori e poeti direi che Raymond Carver, Dorothy Parker, Cormac McCarthy e Patrizia Cavalli hanno avuto un grande impatto su di me e sulla mia pratica artistica. Il tipo di scrittura verso cui mi muovo è spesso semplice ma viscerale, cosa che vale anche per la maggior parte degli artisti visivi che prediligo. Mi piacerebbe scrivere una poesia che riesca a trasmettere ciò che provo quando guardo o penso alle opere di Antoni Tàpies, Tania Pérez Córdova o Christopher Wilmarth.

 

RI: Per alcuni mesi i social media sono stati l’unico mezzo per comunicare con gli altri o per entrare in contatto con il mondo esterno. Questo ha rafforzato o indebolito il tuo rapporto con l’arte digitale?


LH: Sono stata molto felice di avere opere che potevo condividere facilmente tramite immagini o mostre online ma questi ultimi due anni hanno alimentato il mio desiderio di realizzare un numero maggiore di opere fisiche, che esistano al di fuori del mio hard drive. Per esempio i lavori che sto sviluppando adesso sono sculture, serigrafie, libri d’artista e performance. Credo fermamente nell’idea che un’opera d’arte non possa dirsi realizzata senza uno spettatore e che nulla possa sostituire l’esperienza di trovarsi in una stanza piena di opere, in dialogo fra di loro e con il fruitore, o in una stanza vuota in cui una sola installazione può richiedere tutta l’attenzione. Al contrario, negli spazi digitali è spesso difficile riuscire a ottenere un pieno coinvolgimento dello spettatore.

Articolo di Riccardo Innocenti

Cultura Sab, 01/01/2022 - 21:51

Intervista a Matteo Gobbo - CON.TATTO

Matteo Gobbo, 42 anni, è un pittore, scultore, fotografo e videomaker originario di Padova che cinque anni fa si è stabilito a Follonica e oggi vive a Grosseto.

Nella sua produzione artistica Matteo parte da un approccio spirituale e introspettivo: le sue fotografie, sculture e installazioni vogliono riflettere la sua sfera interiore e connetterla con la natura geometrica del mondo. Per questo predilige l’astrattismo ed esplora, attraverso le forme, l’essenza archetipica della materia.

Da dove viene il tuo interesse per l’arte?

Dalle mie esperienze di vita. Sono autodidatta e coltivo l’arte da sempre, ma solo negli ultimi anni ho trovato il tempo per farlo da professionista. Durante i miei viaggi in India e Thailandia ho visitato monasteri e scoperto la meditazione, che mi ha aiutato ad approfondire la mia parte creativa; infatti la mia ricerca artistica è sempre connessa alla ricerca personale, come due dimensioni parallele che si accrescono a vicenda.

Ho anche seguito dei corsi per tenermi aggiornato e sono iscritto alla scuola sperimentale Persistence Is All (PIA) di Lecce. Questa formazione mi serve a uscire dalla mia bolla, ma quando lavoro ho bisogno di non sentirmi influenzato dall’esterno, da teorie razionalizzanti o da ciò che va di moda tra gli artisti. La mia pratica richiede tranquillità con me stesso.

Ad esempio, oggi tutta l’arte è emotiva ma io non sono interessato a smuovere il nostro lato emozionale. Mi ispiro ai mantra, alla geometria sacra e al simbolismo religioso, per questo uso poco il colore e preferisco il bianco e nero, dove il bianco richiama la spiritualità.

Uno dei temi ricorrenti nei tuoi lavori è il silenzio. Come si può rappresentare il silenzio?

Lo si può vivere attraverso la meditazione, ma è indescrivibile, inafferrabile e nessuna rappresentazione lo può cogliere pienamente, ci possiamo solo avvicinare scavando in noi stessi e trovando uno spazio per coltivarlo.

È una tematica contraddittoria, che presuppone nessun gesto o movimento, perché la quiete non si può manifestare senza la fine del movimento. Nel mio lavoro il gesto diventa però pratica di silenzio, gioco conflittuale della percezione che cerca di raggiungere il silenzio.

Cosa presenterai al festival CON.TATTO?

Installerò due lavori nello spazio della chiesetta di Santa Barbara. All’esterno ci sarà “Il silenzio della madre”, un cordone ombelicale simbolo del rapporto madre-figlio, della dimensione umana e carnale del nutrimento che rimanda alla dimensione spirituale della vita che nutre l’uomo. Il cordone sarà in materiale organico, perciò dovrò riprodurlo sul posto.

All’interno proporrò un'installazione immersiva, "Intimacy Room", una composizione di pannelli "a crescere" con al centro una videoproiezione. Il tutto sarà integrato da dei piani sonori diffusi nella stanza, curati dal sound designer e artista Fausto Caricato. Questa fusione ricreerà una dimensione sospesa, intima e introspettiva. Credo che la chiesa sia lo spazio espositivo ideale, perché restituisce il senso di elevazione spirituale e distacco dalla materialità.

 Articolo di Michelangelo Gennaro