Il Tempo della tua rosa

Sono passati quasi dieci anni da quando un pomeriggio d’estate mi addentrai con i miei
amici nelle troniere delle mura, in un’avventura che allora mi inorgogliva per la sua
spavalderia e che oggi mi fa sorridere, scaldandomi un pochino il cuore. C’era un’aria
umida carica di polvere che come la statica di un televisore dava un malinconico crepitio
alla scena. Era un enorme stanzone con il soffitto a botte e le pareti di mattoni vestite di
ragnatele sfitte, pieno di oggetti dimenticati da chissà chi, chissà quando, che si
rivelavano, illuminati dalle nostre torce a pile, come oggetti di scena di una vecchia
commedia: un triciclo, un baule pieno di vestiti ormai consumati dal tempo e tante, troppe,
altre cose che si perdevano nell’oscurità fitta dei cunicoli.
 Mi è capitato più di una volta, dopo aver riscoperto i dettagli delle balaustre del palazzo
liberty sopra la marchigiana od uno dei tanti timidi balconi che si affacciano tra i tetti della
città, di accendermi una sigaretta e trovarmi a pensare a quel pomeriggio ed a quel triciclo,
un oggettino così insignificante, che ciò nonostante, nella sua semplicità, riesce a
raccontare sulle ali della fantasia, la storia di un bambino di tanto tempo fa, del suo
coraggioso pilota, che sfrecciava nel complesso percorso di piazza Dante e che tra infinte
risate vorticava in giri sempre più stretti attorno alla mamma ed alle sue amiche, le quali,
un po’ divertite ed un po' preoccupate, lo richiamavano con un sorriso a metà. Perché in
fondo chi potrebbe veramente arrabbiarsi di fronte ad un così dolce buonumore? Ripenso
a quel baule pieno di abiti lunghi e leggeri che forse, in una calda notte d’estate, una
giovane ragazza studiava e ristudiava cercando quello giusto per andare a ballare il
boogie woogie in un affumicato locale del centro o in una qualche balera estiva. Mi
immagino questa ragazza agitata e pronta a sgattaiolare velocemente per evitare quegli
sguardi pesanti che nel giro di qualche anno avrebbe a sua volta generosamente elargito
alla figlia ed alle sue mode strane. E così di seguito, tra una boccata di fumo e l'altra,
quegli oggetti polverosi e dimenticati, iniziano a raccontare le loro storie tutte diverse, tutte
sincere e forse nessuna reale. L’eco di persone semplici che attraverso le loro gioie ed i
loro dispiaceri hanno impreziosito questi oggetti di un racconto che quasi tutti possiamo
percepire, ma che forse solo chi l'ha vissuto potrebbe davvero ascoltare.
Grosseto è un posto che non è eroico e non è unico, ma che ha come pregio, o forse
colpa, quello di essere stato reso speciale dall’essere nostro. Noi ragazzi di provincia
scappando o inseguendo qualcosa cerchiamo di separarci da questo passato di piccoli
momenti felici e tristi, aspettandoci che l’inizio della grandezza della vita ci permetta di
essere chi dovremmo essere, come se l’esistenza si potesse compartimentalizzare tanto
che chi saremo non sarà dovuto a chi saremmo stati. Rivedo in quel triciclo impreziosito
solo dalla sua storia la nostra Grosseto, che viene nobilitata dai momenti che in lei
abbiamo vissuto. Perché una piazza o un bar non sono semplici luoghi, sono i posti dove
ci siamo formati: lì abbiamo scoperto il relazionarsi agli altri, il pensare, forse anche quel
criticare che ci porta a percepire come noiosa la nostra quotidianità. Sento che siamo
mossi da una furia ordinatrice, che cerca scopi e meccanismi nascosti, per avere
appianata la strada tanto affannosa che conduce alla felicità; quando forse dovremmo
essere capaci di accettare di trovarci in mezzo ad incertezze, misteri, dubbi, senza
metterci irosamente a dar la caccia a fatti e ragioni. 
Forse davvero l’essenziale è invisibile agli occhi ed è il tempo che hai perduto per la tua
rosa che ha reso la tua rosa speciale, e mi chiedo se, in fondo, questa rosa non sia
Grosseto.

Riccardo Mugnai